Il libro che piace all'editoria? Incolore, insapore, indolore

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    Sulla critica. Ebbene sì devo riportarvi pezzi del Giornale, però è un argomento interessante perché sarà successo anche a voi di chiedervi percheddiavolo un tale libro abbia vinto un tale premio.

    CITAZIONE
    A noi Letterati della giuria, appena scampati alla vertigine prodotta dalla calata sui nostri scrittoî di centinaia di oggetti di lettura, non spetta certo il compito di tracciare un vero bilancio storiografico. Esso compete piuttosto a critici [...]

    Altri dilemmi, in effetti, si parano avanti a chi sia costretto da un dovere d'ufficio ad affrontare la debordante quantità del prodotto. L'accesso universale all'alfabetizzazione è stato malinteso purtroppo, non solo in Italia, come lasciapassare indiscriminato alla creazione scritta, cosicché la dubbia qualità che ne caratterizza la più parte, rende vie più arduo l'obbligo di una scelta.

    Non solo non è semplice, e ce lo siamo detti più volte durante questi mesi. Ma talvolta è anche scoraggiante, vista l'evidente assenza di capolavori assoluti.

    Giusto sul problema della selezione si sono appuntati alcuni pubblici dibattiti degli ultimi mesi, in cui si è imputato agli editori la colpa di non saper più agire da filtro. E in effetti, la produzione compulsiva e insieme assai disomogenea che caratterizza ormai anche le case più blasonate sembra convalidare l'assunto. Ma c'è forse un equivoco da dissipare.

    Davvero si chiede chi passa in rassegna i prodotti di grandissimi editori assieme a quelli di minuscoli e talora improvvisati stampatori , davvero è venuta meno la selezione un tempo operata dall'editoria, quella selezione che, secondo alcuni, consentiva di inquadrare un'opera già in base alla sede di pubblicazione, avendo ogni casa e ogni collana una precisa identità in fatto di livello qualitativo, diritture ideali, gusto, pubblico di riferimento? Il problema, enunciato in questi termini dalla critica più ferrata, è reale ma appare forse mal posto a chi registri, come ci è capitato a più riprese, che i criteri di scelta editoriale non sono venuti meno. Sono semplicemente mutati, seguendo logiche mercantili che sfuggono, o non interessano, a chi come noi non si preoccupi della riuscita commerciale. Ciò priva, tuttavia, di un comodo supporto, rendendo più oneroso il nostro ruolo di selezionatori. [...]

    Un'assenza quasi generale che spicca all'occhio di chi è sensibile ai fatti di lingua riguarda appunto il modo in cui la larga maggioranza degli autori che abbiamo esaminato maneggia il mezzo, cioè l'italiano. Il grande assente è lo stile. Diciamolo nel modo più fastidioso: l'esperimento che consiste nel prelievo di un qualsiasi segmento testuale da quasi qualsiasi romanzo pubblicato quest'anno, e nella sua immersione nel tessuto di un altro romanzo dà quasi sempre lo stesso risultato: indistinguibile.

    Le migliaia di pagine passate sotto i nostri occhi sono insomma scritte pressoché tutte in un italiano che non oserei chiamare letterario, ma piuttosto editoriale (un italiano degli editor?) cui pare rassegnata la larga maggioranza dei narratori. È un curioso contrappasso quello che ha portato la prosa italiana dall'affannosa ricerca solo un paio di secoli fa di una lingua comune vista come eroico conseguimento di civiltà, alla constatazione che il suo trionfo ha reso possibile il dilagare di uno stile inodore, insapore e incolore in cui pressoché chiunque può cimentarsi, alla peggio col soccorso di un maquillage redazionale cui vien da attribuire almeno l'ultimo strato dell'uniforme patina di cui lingua, stile e persino elementi strutturali e architettonici dei testi paiono tutti placcati.

    Lorenzo Tomasin, tutto qua

    Una risposta di Massimiliano Parente:

    CITAZIONE
    Non è che abbia torto il filologo Lorenzo Tomasin, che in riferimento alla cinquina del Premio Campiello denuncia l'uniformità dei testi: sono scritti nella stessa lingua standard, se li mischiate è come fare il gioco delle tre carte con la stessa carta.

    Ma non è neppure vero che non esistono i capolavori, lo si è detto sempre, in ogni tempo, perfino quando Flaubert spedì a centocinquanta critici Madame Bovary e la maggior parte fece finta di non averlo ricevuto. O quando nella Francia degli anni Dieci i critici si sperticavano nel parlare di Pierre Hamp (il Saviano dell'epoca), di cui oggi ci ricordiamo solo perché se ne lamentava Marcel Proust con il suo editore Gallimard («Perché investi tutti questi soldi in pubblicità per Hamp e non per la Recherche?»). È che gli addetti ai lavori i capolavori non li hanno mai saputi vedere, al limite li hanno affossati. I critici? Berardinelli ha dichiarato da anni di non leggere più romanzi, autore di inutili saggi come Non incoraggiate il romanzo, ispirato a un libro di Filippo La Porta intitolato Meno letteratura per favore, e poi si lamentano che i critici non servano più a niente. Ma suicidatevi, fate prima.

    Nel frattempo, in un ventennio di capolavori ne sono usciti eccome, né più né meno che in qualsiasi altra epoca. Nel 1993 è uscita per Adelphi la riscrittura di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, l'ultimo gigante rimasto, da premiare a occhi chiusi, mentre quell'anno lo Strega premiava La casa del padre di Giorgio Montefoschi e il Campiello Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. A proposito di quell'ultimo Fratelli d'Italia, lì il sublime Arbasino ricorda cosa dicevano i critici di Carlo Emilio Gadda: «Ironia oziosa», «Scherzo a vuoto», «Aggrovigliata stesura», «Prose ricche, troppo ricche», «È un Barilli a cui manca tutto quello che è di Barilli».

    E ancora. Tutti i capolavori di Aldo Busi, ignorati da qualsiasi Strega e Campiello. Nel 2009 per Mondadori esce il monumentale Canti del caos di Antonio Moresco, ma lo Strega premia Canale Mussolini, di Antonio Pennacchi, e il Campiello Accabadora di Michela Murgia. Se c'è un criterio, è premiare libri dimenticabili e infatti già dimenticati.

    Tutto qua

    Un'altra di Giuseppe Conte, forse più ragionata e meno polemica:

    CITAZIONE
    [...] È chiaro, come afferma il filologo Lorenzo Tomasin, che l'alfabetizzazione di massa ha messo tutti in grado di scrivere. Ma è il declino del ruolo sociale, spirituale, fondante della letteratura che ha fatto credere a qualunque alfabetizzato di poter scrivere un romanzo, in linea con il principio secondo cui uno vale uno che ha prodotto gli sconquassi politici cui stiamo assistendo. Ed è la stessa ragione che spiega il sopravvento preso dal marketing, innocente sinché non si crede valore assoluto e non crea mostri come la coppia Fedez-Ferragni: che qualunque premio letterario, diciamolo senza ipocrisia, sarebbe felice di ospitare. [...] Il fatto è che critici e filologi possono fare senza volerlo molto male all'immaginazione creativa, quando insistono nell'idea che l'unica ricerca che conta nel romanzo è quella linguistica: che l'unica linea è quella di Gadda (o addirittura di Pizzuto e Manganelli). Dire che la ricerca linguistica è essenziale, è una tautologia. Come dire che è essenziale lo stile, di cui non conosco definizione migliore di quella di Damaso Alonso: «Tutto quello che individualizza un ente letterario». Ma i personaggi, la trama? Dove è scritto che siano morte scorie del passato? Ogni epoca deve avere i suoi nuovi eroi e le sue nuove eroine.

    Tutto qua
     
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