Il carnevale nel Rinascimento

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    A Roma sparita, il popolo, i nobili, il clero aspettavano tutti il Carnevale: era un momento magico in cui tutto era concesso, un intervallo dei pesanti schemi che la vita quotidiana imponeva.
    Era consentita la festa, gli spettacoli, il teatro, i travestimenti..Insomma per otto giorni era sconvolto ogni ordine sociale e religioso.
    Nonostante i bandi e gli avvisi papali che cercavano di regolamentare il carnevale, migliaia di persone di tutte le estrazioni sociali si riversavano nelle belle piazze romane con una grande voglia di trasghessione e dare vita ad uno spettacolo di piazza. E le stesse autorità, rigide durante tutto l'anno, chiudevano un occhio...
    Il Carnevale si festeggiava la settimana prima della Quaresima.
    Dal '400 lo scenario principale diventa via del Corso e le strade circostanti.
    Ricchi, poveri, ecclesiastici con maschere stravaganti si mischiavano nella folla, dimenticando così ogni gerarchia sociale. Ci si poteva infatti prendere gioco di tutto e tutti, anche delle autorità!
    Per chi se lo poteva permettere, c'era la possibilità di affittare lochi cioè posti a sedere lungo via del Corso e di andare girando con carrozze.
    Proprio in questa strada infatti si svolgevano giostre, corse e battaglie di ogni sorta.
    Il carnevale si apriva con un corteo ufficiale delle autorità e delle maschere che sfilavano lungo l'antica via Lata poi via del Corso, dove si alternavano teatrini improvvisati e maschere tradizionali, ispirate anche alla vita quotidiana.

    il resto del post qua

    Edited by ‚dafne - 22/2/2016, 00:37
     
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    Fino alla fine del XIX secolo il Carnevale Romano ha rappresentato uno dei maggiori eventi pubblici del paese. Sebbene quest'usanza si sia estinta da oltre un secolo, occupa tutt'ora un posto di rilievo tra le antiche tradizioni folkloristiche della città. Consisteva in una colossale festa pubblica della durata di otto giorni, che si chiudeva la notte del Martedì Grasso, con l'avvento della Quaresima. In realtà i festeggiamenti cominciavano undici giorni prima, cioè di sabato, ma il venerdì e la domenica erano vietate le corse e le mascherate [...]

    L'abitudine di indire manifestazioni di svago prima della Quaresima ebbe inizio nel X secolo, anche se in forma di giochi e tornei, solo in seguito tramutati in feste di piazza. Divenne presto uno degli appuntamenti più attesi dell'anno, richiamando gente anche da fuori città. Durante il Rinascimento il Carnevale Romano superò in fama persino quello celeberrimo di Venezia!

    tutto qui

    In una biografia di Lucrezia (o probabilmente in più di una) sono descritti i festeggiamenti del carnevale del 1497. Erano inclusi:

    -Una sfilata in via del Corso
    -Una cosa coi sacchi da Piazza Venezia a Piazza del Popolo per la quale si facevano scommesse. I concorrenti erano 120 divisi in squadre (!)
    -Battaglie a colpi di farina per le strade
    -Spettacoli di acrobati, zingari e saltimbanchi
    -Una corsa di ebrei con cento partecipanti che andavano da Castel Sant'Angelo a piazza San Pietro portando in una mano un ramo d'olivo e nell'altra lo stendardo dei Borgia.

    Edited by phèdre - 14/2/2017, 20:13
     
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    Venezia:

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    Sia per la sua collocazione nel calendario, sia per l'ampio spazio che essa concedeva alla teatralità, al gioco, all'esaltazione della giovinezza e dell'amore, l'antica festa delle Marie presentava qualche affinità con il carnevale. Questo si estendeva dal giorno di santo Stefano all'inizio della quaresima e comportava tanto manifestazioni patrocinate e regolamentate dal governo quanto festeggiamenti di spontanea iniziativa privata. Il momento in cui più sensibile era la commistione tra "alto" e "basso", tra rituale pubblico e divertimento popolare, era la giornata del giovedì grasso o "zioba dela cazza", così chiamato in riferimento alla sua principale attrattiva, la "caccia al toro" in piazza San Marco (40). Nemmeno questo violento rituale era privo di collegamenti con la memoria storica e con la liturgia civica della Repubblica: si trattava, infatti, di una cruenta e parodistica rievocazione della vittoria riportata nel 1162 dai Veneziani su Ulrico patriarca di Aquileia, invasore della sede patriarcale filoveneziana di Grado: un toro (in realtà un bue) e alcuni maiali, allusivi al patriarca stesso, ai suoi canonici e ai feudatari a lui fedeli, ricevevano formale sentenza di morte e venivano quindi "giustiziati" mediante decapitazione in Piazza. Fino al 1420, allorché il Friuli passava sotto il dominio veneziano, era obbligo dei successori dello sconfitto patriarca di Aquileia fornire annualmente gli animali, oltre a un certo numero di pani, simboleggianti anch'essi i feudatari carinziani e friulani. Era consuetudine che il doge distribuisse ai patrizi la carne degli animali macellati inviandone a ciascuno un pezzo, chiamato zozolo, e che analoga destinazione avessero i pani; nel corso della guerra della lega di Cambrai l'usanza decadde, e da allora carne e pane si donarono a monasteri e a prigioni.

    Nei primi decenni del Cinquecento il consiglio dei dieci metteva in atto vari tentativi per modificare questa tradizione, almeno negli aspetti giudicati più grotteschi e indecorosi. Un decreto del 1520 aboliva l'introduzione dei porci nell'ufficio del giudice del proprio, dove si emetteva nei loro confronti la sentenza di condanna, nonché la fase del rituale che originariamente faceva seguito all'uccisione degli animali: l'abbattimento cioè da parte del doge, nella sala del Piovego in palazzo Ducale, di alcuni modellini in legno simboleggianti i castelli friulani. In seguito si tentò anche, ma invano, di sostituire i maiali con un unico toro; il cambiamento non sarebbe stato irrilevante in quanto questo animale, diversamente dall'umile porco, richiamava un'immagine di aggressività e di ferocia che lo rendeva accettabile avversario dell'uomo, degno di cimentarsi con lui in un conflitto nel quale il valore di entrambe le parti contendenti veniva messo alla prova (41). Dopo la macellazione dei maiali e del toro, la festa del giovedì grasso in Piazza proseguiva di norma all'insegna di una festosità incruenta, con carri allegorici, rappresentazioni teatrali di vario genere, spettacoli pirotecnici; in analoghe manifestazioni, su scala più ridotta, ci si poteva imbattere un po' dovunque in città. Esse erano d'altronde consuete espressioni di pubblica esultanza, non strettamente legate al carnevale.

    La preoccupazione di conferire un tono più elevato e dignitoso alle celebrazioni carnevalesche ufficiali era propria dei membri della classe dirigente più sensibili all'esigenza di fissare una netta linea di demarcazione tra i divertimenti del ceto popolare e quelli gestiti dallo stato o riservati, comunque, alle élites; attivo in questo senso sarebbe stato in particolare il doge Andrea Gritti, in coerenza con la sua aspirazione ad adeguare a criteri di aulica solennità il centro urbanistico di una Venezia destinata, secondo il programma grittiano, a emulare e a superare Roma. Superfluo precisare che questo aristocratico rigetto di talune forme del rituale carnevalesco non implicava la benché minima riprovazione per le sevizie inflitte agli animali: lo sfruttamento a fini spettacolari delle sofferenze di un essere vivente, bestia o uomo che fosse, era del tutto consono con la mentalità - non solo veneziana - del tempo. Mai, dunque, si sarebbe potuto prendere in considerazione la possibilità di abrogare la caccia del "zuoba grasso", alla quale il doge presenziava insieme al corpo diplomatico, alla signoria e a numerosi senatori; un dovere di rappresentanza al quale si assoggettava, verosimilmente non troppo malvolentieri, anche quel rigido tutore del decoro aristocratico che era Andrea Gritti. Nel corso del carnevale, a varie "cacce al toro" Si poteva d'altronde assistere anche al di fuori del giovedì grasso e in zone della città diverse dalla Piazza, come campo San Polo o campo Santa Maria Formosa; altri "piaceri" della stagione erano il tirare il collo a un'oca, l'aizzare cani contro un orso (42). Svaghi crudeli, che - come le esecuzioni capitali - non rispondevano tuttavia alla sola esigenza di soddisfare gli istinti sanguinari della folla: poiché il carnevale toccava il suo culmine sul finire dell'inverno, coincidente per il calendario veneziano con il finire dell'anno, il sacrificio dell'animale si caricava di una valenza simbolica, l'uccisione del vecchio per consentire la nascita del nuovo, la rigenerazione primaverile della città e del mondo intero.

    In un tempo come quello di carnevale, sacro al libero scatenarsi degli istinti e delle energie naturali, la violenza - sempre latente, sotto la superficiale vernice di raffinatezza, anche negli strati più elevati della società veneziana del Rinascimento non poteva certo appagarsi di sfoghi pianificati e istituzionalizzati. I giovani, i signori del carnevale, tendevano a dimenticare ogni convenzione sociale e a trasformarsi in un. vero pericolo pubblico. Non si aveva rispetto nemmeno per il massimo rappresentante dell'autorità statale, se nel corso di un festino offerto in Palazzo dal doge Gritti alcuni giovani - questi giovani del giorno d'oggi, chiosava il Sanudo, "molto discoli" - avevano rivolto alle donne presenti "stranie et vergognose parole, et fato quasi cazer in aqua una neza dil Serenissimo" (43). Un forte incentivo allo scatenamento dell'aggressività era costituito dalla maschera: i reati commessi in ogni epoca dell'anno da individui mascherati subivano un netto incremento nei mesi di gennaio e di febbraio, allorché il senso di impunità sempre conferito dal travestimento si sommava allo spirito trasgressivo del carnevale, incoraggiando, accanto a blande manifestazioni di irriverenza al potere politico o religioso, il dilagare di una vera e propria criminalità. Sotto la protezione della maschera si regolavano vecchi conti ma si uccideva anche senza premeditazione, per i più futili motivi. Nessuno si stupiva troppo se il lancio di qualche palla di neve, o uno scherzo di dubbio gusto, davano origine a tragici fatti di sangue; era da considerarsi, in fondo, bravata tra le più innocue quella intrapresa il martedì grasso del 1522 dal nobiluomo Baldissera da Canal di Alessandro e da due suoi complici, che "stravestidi" avevano fatto irruzione a Rialto asportando dalle botteghe "formazi, persuti, luganege [...> per forza e senza pagar" (44).

    Di qui il crescente ostracismo nei confronti di maschere e travestimenti da parte del consiglio dei dieci. Mentre due decreti del 1459 e del 1462 consentivano "mumos et mascaras" solo in occasione di nozze e di feste, nel secolo successivo i travestimenti venivano proibiti in ogni tempo dell'anno e concessi - in genere limitatamente ai soli uomini, purché disarmati - solo nella fase culminante del carnevale, talvolta nemmeno allora (45). Ma le mascherature carnevalesche suscitavano, come testimoniano i Diarii sanudiani, reazioni ambivalenti: all'allarmato sospetto, sempre pronto a tramutarsi in aperta condanna, subentrava il rammarico allorché la penuria di maschere per le vie rendeva il carnevale "magrissimo" e quasi di "mal augurio". Il mascherarsi per carnevale rientrava in fin dei conti nella tradizione veneziana; e la tradizione andava rispettata e salvaguardata, sempre e comunque. Inserito in un ordinato contesto di divertimenti rispettosi delle gerarchie sociali e dell'ordine costituito (addomesticato, quindi, privato delle sue potenzialità eversive) il travestimento si rendeva accetto anche ai benpensanti; tanto più che celebrazioni adeguatamente gioiose non potevano che rafforzare la funzione apotropaica propria del carnevale (46). La festa, per giunta, assolveva la funzione civica di instillare nei sudditi uno stato d'animo rilassato e ottimista, una serena fiducia nel solido corpo statale di cui ciascuno era chiamato a sentirsi, pur nella diversità delle funzioni e delle prerogative, parte integrante. Così, la spettacolare festa organizzata nel carnevale del 1520 a San Simeon sul Canal Grande da una Compagnia della Calza, gli Immortali, riusciva a distrarre Marin Sanudo dalle sue preoccupazioni per la diffusa inosservanza delle leggi, la dilagante delinquenza, il lassismo della giustizia, e a farlo esultare di patrio orgoglio: festa belissima et abondante, che in memoria di homeni vivi la più bella non è sta fata in questa terra, e questo sia notà a gloria di questa cità, la qual è troppo excelente, licet li homeni sia cativi (47).

    c) I riti della settimana santa

    Purificata durante il tempo quaresimale dai paganeggianti eccessi carnevaleschi, Venezia riacquistava in pieno il suo volto di ben ordinata Repubblica cristiana nei riti propri ai giorni immediatamente precedenti la Pasqua, durante i quali si assisteva a una perfetta fusione tra liturgia religiosa e liturgia civica: ne erano infatti protagonisti, in un susseguirsi continuo di processioni, il doge e i rappresentanti delle principali magistrature (48).

    La domenica delle Palme era occasione di una solenne processione in piazza San Marco, durante la quale il clero, il doge, i magistrati e il popolo sfilavano portando le palme benedette. Il mercoledì santo il doge si recava a visitare San Giovanni di Rialto, chiesa di suo giuspatronato; il giorno seguente era la volta della chiesa di San Giacomo di Rialto, alla quale - secondo la leggenda - papa Alessandro III aveva concesso un'indulgenza per tutti coloro che in questo giorno la avessero visitata (49). La sera un'altra processione, quella delle Scuole grandi, si recava a San Marco per venerarvi il sangue miracoloso di Cristo, ivi esposto ai fedeli in un'ampolla. La mattina del venerdì santo doge, signoria e altri rappresentanti dell'autorità politica veneravano in San Marco la reliquia della croce; nel pomeriggio il corteo dogale, al quale si aggiungevano membri della Scuola di San Marco, accompagnava in processione, uscendo dalla Basilica e rientrandovi dopo aver attraversato la Piazza, l'ostia consacrata al "sepolcro" che veniva poi sigillato con il sigillo dogale. La sera, analoghe processioni al sepolcro si svolgevano, a lume di torcia, nelle varie parrocchie, e l'intera città era illuminata a giorno come per una grande, corale veglia funebre (50). La mattina di Pasqua il doge, in abito d'oro, accoglieva in Palazzo la processione dei canonici di San Marco, che gli offrivano una candela accesa; con loro egli si recava alla Basilica. Qui, nel corso di una specie di sacra rappresentazione, avveniva la scoperta del sepolcro vuoto e veniva proclamata l'avvenuta resurrezione di Cristo; poi, nella chiesa sontuosamente addobbata e con la Pala d'oro esposta sull'altar maggiore, tutti si scambiavano un bacio e si celebrava la messa.

    Era tradizione che la sera di Pasqua la processione dogale nella sua forma più solenne, comprensiva di trionfi e zoia, andasse per via di terra e per l'interno (passando cioè, all'andata e al ritorno, per il ponte di San Filippo e Giacomo anziché per quello della Paglia) al monastero di San Zaccaria, per assistervi ai vespri. La più diffusa tra le leggende che cercavano di spiegare l'origine di questa consuetudine raccontava che nel secolo IX la badessa Agnesina Morosini aveva fatto dono al doge Pietro Tradonico di una corona ingioiellata: il primo corno dogale. La badessa aveva ricevuto la corona da papa Benedetto III, grato per essere stato accolto dal monastero veneziano allorché cercava di sfuggire all'antipapa Anastasio III; in tal modo la corona sarebbe pervenuta al doge, sia pure per via indiretta, dall'autorità del pontefice - ancora una volta, la riconoscenza di un papa quale garanzia e avallo dell'autonomia politica veneziana - anziché da quella dell'imperatore di Bisanzio. Più verosimile, sebbene più prosaica, è però l'ipotesi che la visita annuale altro non fosse che una sorta di risarcimento per il danno economico arrecato al monastero dall'ampliamento di piazza San Marco, che aveva inglobato terreni appartenenti alle benedettine di San Zaccaria (51).

    treccani

    CITAZIONE
    Col Rinascimento le mascherate assunsero un carattere secolare e non furono più che feste di popolo e trattenimenti di società: sotto forma di cortei, di carri, di balli, di vere e proprie pantomime divennero un elemento permanente nella vita delle città e vennero ad allietare non soltanto il carnevale ma parecchie celebrazioni pubbliche e private. I soggetti erano i più svariati e andavano da quelli allegorico-morali, di gusto ancora medievale, preferiti in alcune nazioni d'Europa, a quelli mitologici o tolti all'arte e alla storia greco-romana, di gusto più consono a quello del Rinascimento e preferiti in Italia (le Favole Troiane, Coriolano, ecc.), a quelli suggeriti dagli usi (tornei, costumi nazionali) o dai fatti del giorno, o dalla fantasia (animali, "omini salvatici", persino scheletri dentro le loro casse).

    [...] Le feste mascherate si propagarono rapidamente in tutta l'Europa, specialmente in Francia e in Inghilterra. Splendide dappertutto, ebbero però in Italia, nell'atmosfera gloriosa nel Rinascimento, un carattere più organico e artistico, sia per essere la scelta dei costumi e la decorazione dei carri e dei luoghi affidate ad artisti anche sommi, sia per la naturale abilità dei mascherati a sostenere la loro parte, sia per la familiarità che il popolo italiano aveva allora non soltanto, come altrove, con le tradizioni religiose, ma anche con le favole mitologiche e poetiche e con i racconti storici. Citeremo fra tutte la sontuosissima festa ideata da Leonardo per Lodovico il Moro in onore di Gian Galeazzo Sforza e Isabella (1490), in cui gruppi di maschere vestite alla foggia di varî paesi scendevano da carri rappresentanti i pianeti ad ossequiare la giovanissima coppia. [...]

    treccani

    Firenze:

    Video


    CITAZIONE
    I carri allegorici del Rinascimento

    Nel Rinascimento i carri carnevaleschi esibivano la grandezza dei signori e permettevano al popolo sfrenati baccanali: "Quant'è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia / del doman non c'è certezza", cantava Lorenzo il Magnifico durante i grandi carnevali di Firenze. Anche a Roma, Milano, Bologna, Ferrara, Mantova, si costruivano carri allegorici che rappresentavano scene mitologiche, episodi della Bibbia, allegorie di vizi e di virtù, storie della Grecia e di Roma, segni astrologici, favole e leggende dei santi. Antico simbolo trionfale romano, ma anche biblico, ripreso nel Medioevo con il Carroccio, simbolo di libertà cittadina e popolare, il carro dei Trionfi di Carnevale diviene nel Rinascimento strumento di una propaganda politica e culturale che costruiva una visione del mondo ricca e articolata offerta al 'popolo' dall'élite al potere.

    treccani

    Roma:

    CITAZIONE
    La decisione dello stesso pontefice, nel 1466, di modificare l’organizzazione spaziale del carnevale, spostando le corse dei cavalli che si svolgevano in Testaccio a via Lata – cioè nella direttrice adiacente al palazzo papale – e di istituire corse di uomini distinti per classe d’età (giovani, vecchi, bambini) o per appartenenza etnica (gli ebrei), considerata tradizionalmente «un ampliamento del carnevale», poi codificato negli stessi Statuti è apparsa alla storiografia più recente non meno densa di implicazioni. Alain Boureau ha notato come essa spostava l’asse festivo carnevalesco che andava dal Testaccio ad Agone (piazza Navona, ove dal xiii secolo, ma forse anche da una fase più antica, il giovedì grasso si svolgevano altre feste carnevalesche), con un’apertura in direzione nord verso porta Flaminia e con un significativo incrocio con la via papalis dal Vaticano al Laterano proprio all’altezza del Campidoglio. Anna Esposito ha rilevato la nuova dimensione – cortigiana e d’apparato – che assume il carnevale, nel Medioevo festa popolare per eccellenza che vedeva la città, nella sua divisione per ordini, compiere al cospetto del pontefice e delle magistrature civiche un rito di combattimento e di forza che era anche occasione per ribadire la sudditanza al Comune di Roma di alcuni centri laziali, quali Tivoli, Velletri, Cori. Certamente la configurazione data al carnevale da Paolo II riassumeva la fase medioevale e comunale della festa che si produceva in parte in uno spazio extraurbano – un campo montuoso che non si doveva seminare – quale era il Testaccio, area della regione dell’Aventino, considerata uno dei luoghi mitici dell’origine di Roma : uno spazio a sé, lontano dalle direttrici degli itinerari pontificali. Essa inoltre sanciva l’inserimento dei ludi nel cuore dello spazio pubblico della città con un proposito di appropriazione da parte dell’autorità pontificia.
    [...] Nel 1519 Marin Sanuto descrive il carnevale romano di Testaccio e via Lata «con i diversi pallii a diversi giorni» che vedevano esibirsi «li zudei, li mamoli, li gioveni, li vecchi e le putane, quegli nudi e queste in camisa», ma quando arriva a rendere conto della festa di Agone scrive che essa «è una representazione di uno triumpho».
    Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento è cioè avvenuta una trasformazione della festa secondo moduli teatrali derivati dalla cultura classica, che hanno profondamente trasfigurato l’antico rito “popolare” basato sulla competizione violenta e di carattere militaresco.
    È una svolta culturale di grande respiro che investe non solo il carnevale, ma tutte le tradizioni cittadine romane e che rilancia la romanitas classica come carattere peculiare del municipio, valore del quale il corpo di città si rappresentava come geloso e vigile custode.
    [...] Ma anche le ricorrenze rituali ordinarie furono abilmente utilizzate per veicolare messaggi propagandistici che esaltassero allo stesso tempo il pontefice e la sua città, e non è casuale che anche i ludi del Carnevale fossero valorizzati come l’occasione festiva più propizia a questo scopo.
    Qui vorrei, a titolo di esempio, citare solo un riferimento, usando un resoconto delle feste carnevalesche «celebrate in Agone ed in San Pietro» nel 1539:

    continua qui

    Edited by phèdre - 27/2/2017, 14:34
     
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