Nel Diario di Anne Frank c’è ancora molto da scoprireCon grandi finestre e larghe vetrate, le abitazioni di Amsterdam si specchiano vanitose sui canali. I loro inquilini per secoli le hanno disegnate col desiderio di trattenere la più piccola scintilla di chiarore che filtrasse nelle frequenti giornate di nubi. In nome e in cambio di quella luce ai passanti hanno permesso, e permettono tuttora, di scorgere le loro vite oltre i vetri senza tende. La quarta parete della casa, solida e rivolta agli spettatori, viene elusa dalle tante e spaziose aperture: l’immaginazione del passante può quindi sorvolare sulla curiosità iniziale (cosa contengano quelle stanze, chi le abiti), alla quale già rispondono gli occhi, per posarsi direttamente sulle storie, i gesti e le parole degli esseri viventi intravisti dalle finestre. È un immaginario che prelude alla casa di bambola, e fa somigliare a file di giocattoli le file ordinate di case affacciate sui canali. Non solo: è stato ispirazione nel tempo per un immaginario di illustrazioni e dipinti, a mostrarci case sezionate e aperte, descritte nel loro interno fin nei dettagli più piccoli, segreti domestici, manie e meraviglie nascoste.
La celebre copertina a scacchi rossi e bianchi del primo quaderno di Anne Frank è ben diversa dalle facciate delle tradizionali case olandesi, ma svolge una funzione perfettamente identica: svanire.
Nella lettura del Diario abbiamo la consapevolezza di muoverci oltre una copertina svanita. E con essa Anne Frank ci conduce nella sparizione di quegli elementi che si frappongono tra il nostro sguardo e la sua vita: le case dell’intera città, i muri perimetrali dell’edificio al 263 di Prinsengracht, la scaffalatura che conteneva schedari e celava l’apertura del nascondiglio, le pareti sottili delle poche stanze dove otto individui ebrei hanno cercato la salvezza per più di due anni. Anne Frank annulla ogni strato che si frapponga tra il lettore e le sue giornate, rende evanescenti il soffitto e il tetto dell’edificio, trasparenti le porte, smaterializza sovente i propri stessi abiti, dissolve le ultime difese di una ragazza spaventata e sognante.
La famiglia Frank si nasconde il 6 luglio 1942, dopo mesi di segreti preparativi da parte del padre. Anne abbandona la propria abitazione in Merwedeplein indossando uno sopra l’altro numerosi strati di vestiti. Arrivata nel nascondiglio, il retro della fabbrica diretta dal padre, dovrà dare inizio concreto a una spoliazione progressiva, che diverrà simbolica nel racconto del Diario. Il luogo dove i Frank si rifugiano ha l’aspetto di una casa, ma ogni possibilità esterna di osservare l’interno dell’abitazione era stata saggiamente preclusa: lunghi periodi quotidiani di coprifuoco, finestre oscurate (”in verità non si può parlare di tende perché sono solo semplici, freddi pezzi di stoffa, diversi per forma, qualità e motivi […]; questi capolavori sono stati attaccati alle finestre con delle puntine, e non verranno tolti per tutto il tempo in cui saremo nascosti qui”, 11 luglio 1942). Da fuori, nessuno doveva sospettare che in quell’edificio fossero nascosti ebrei: stracci contro i vetri delle finestre, spiragli ricoperti di cartone, buio. L’alloggio segreto, per Anne, rappresenta una chiusura contro l’esterno, una barriera che per metà si mostra angosciante e per metà fa assaporare la possibilità quotidiana di salvarsi, sfuggendo alla deportazione. Si fa ostacolo e protezione, diventa odiato e amato, a volte addirittura preferito alle stanze sottostanti, gli uffici della fabbrica:
Quassù mi sento tuttora più al sicuro che non sola in quella casa grande e silenziosa.
26 maggio 1944
La fragilità della barriera e del segreto custodito dai Frank non risulta evidente soltanto dall’epilogo degli otto ebrei, arrestati e condannati a morte dai nazisti perché spinti nel flusso della deportazione, ma si mostra anzitutto ogni qual volta la realtà esterna irrompe, o spinge per tracimare all’interno. Non è un caso che Anne scriva le pagine iniziali del diario in forma di lettera alle amiche, chiedendo sovente una risposta, illudendosi che la realtà potesse ancora relazionarsi con il nascondiglio. Il 25 settembre 1942 Anne scrive a Jacque per salutarla:
Quando mi hai telefonato domenica pomeriggio, non potevo dirti niente perché mia madre non voleva, tutta la casa era già sottosopra, e la porta d’ingresso era chiusa a chiave. Hello doveva venire ma nessuno gli ha aperto.
Anne racconta l’attimo nel quale inizia per la propria famiglia il periodo di segreto e latitanza: due eventi la mettono alla prova nel giro di poco, e lei li descrive usando pochissime parole. Sa che dal momento della decisione, accelerata dalla convocazione di Margot ai lavori forzati, tutto nei Frank è cambiato nonostante si trovino ancora a casa, nella propria casa. La realtà esterna in forma di telefonata irrompe nella vita di Anne, ma la ragazza non dice nulla; Hello suona alla porta, ma nessuno gli apre. Possiamo quasi vederlo, il ragazzo, attendere invano una risposta senza immaginare che oltre quei muri, salite le poche scale del condominio in Merwedeplein, tutti si erano zittiti per non essere scoperti nei preparativi della fuga. La vita nella cosiddetta “Casa sul retro”, nell’intimo della famiglia Frank, è già cominciata prima di varcarne la soglia.
Il percorso umano di Anne verrà segnato dal contrasto tra interno ed esterno, dal desiderio di fuggire e abbattere distanze, dal desiderio di rimanere a proteggersi, richiudersi ancor prima di rinchiudersi. Come le case dalle grandi finestre allineate sui canali, Anne si è trovata suo malgrado a cercare una luce che nel tempo si è mostrata sempre più fioca, a dare spazio a un dialogo fecondo e illusorio con una realtà esterna, un mondo al quale si sarebbe relazionata in modo probabilmente diverso, addirittura opposto, se lasciata in libertà.
Anne comprende che la quarta parete della propria esistenza è stata oscurata. Il provvidenziale diario, da lei scelto in una cartoleria-libreria a due passi da casa in vista del suo tredicesimo compleanno, diviene più forte di un semplice contenitore d’espressione: si tramuta esso stesso in finestra, realtà esterna. Anne lo utilizza per raccontare a se stessa il mondo dentro e fuori da sé. Il 10 ottobre 1942 il mondo bussa di nuovo, questa volta ai pensieri di Anne:
Miep ha proposto di portarmi con sé una sera e farmi fare il bagno da lei, e riportarmi a casa la sera dopo. Ma è davvero troppo pericoloso perché potrebbe essere che qualcuno mi veda.
I Frank hanno già passato nascosti un centinaio di giorni, e forse Miep Gies, una dei benefattori che accudiscono i clandestini, pronuncia quelle parole senza crederci e con l’intento di dare speranza. Miep, figlia adottiva, aveva adottato a sua volta i clandestini. È solo un attimo, ma sufficiente per far balenare negli occhi di Anne, e nei nostri, l’intero percorso che da lì porta alla casa di Miep, le strade della città, i canali, i tetti, i colori dell’autunno, i ponti ricoperti di foglie gialle. Il caldo e la serenità di un bagno senza l’angoscia di essere ascoltati e sorpresi, senza la fretta di chi deve condividere l’acqua con altre sette persone; un letto in una casa libera, una notte distante dagli incubi, dalla tana dove stare rinchiusi come topi braccati, addormentarsi sulla federa pulita e chiudere gli occhi senza rimorsi come in quella foto da piccola, scattata dal padre ancora a Francoforte. È un pensiero leggerissimo e potente che deve aver attraversato la mente di Anne, per abbandonarla quasi subito alla prudenza e alla razionalità della paura.
Anne respira dalla fessura di una porta chiusa (12 febbraio 1944), rifrange la luce che viene da fuori e la tramuta in parole. Si avvicina alla spiritualità passando per l’espressione, fissa il cielo con la voglia di farsi raggiungere ancor prima di raggiungerlo. Il 23 febbraio 1944 scrive:
Ma guardavo anche fuori dalla finestra aperta, verso un bel pezzo di Amsterdam sopra a tutti i tetti, fino all’orizzonte che si tingeva di viola. Finché questo esiste, pensavo, e io posso viverlo, questo sole, quel cielo, senza una nuvola, finché esiste non posso essere triste.
È tra i passi più celebri del Diario. La fragilità di Anne si esprime in un legame sottilissimo con un mondo che poco per volta le scompare tutto intorno. La sua speranza è racchiusa in un finché. E il Diario nasce, si appoggia e cresce intorno a quel finché, il finché che tiene in vita Shahrazad, porta all’altare dopo mille peripezie gli innamorati dei libri, permette ad Anne di non impazzire. “Spero mi sarai di gran sostegno”, sono le prime profetiche righe.
Il 13 giugno 1944, il giorno che segue il suo quindicesimo compleanno, Anne ritorna allo stupore di chi vede il mondo.
La serata buia e piovosa, la tempesta, le nuvole che si rincorrevano mi avevano rapita; dopo 1 anno e 1⁄2 per la prima volta ero di nuovo faccia a faccia con la notte.
Per il genere di esperienza vissuta, e per il modo nel quale tutto era stato preparato, i 25 mesi di nascondimento sono stati un lungo e terribile faccia a faccia con una notte senza luci, piena di terrore e angoscia, sussurri, piedi scalzi trascinati sul pavimento, ripetitività e noia, convivenza entro spazi ridottissimi, equilibri fragilissimi mantenuti con grande forza, rarissimi chiarori nelle tenebre. In un’esistenza di porte chiuse, finestre sbarrate, bocche mute, le pagine del diario sono l’unica cosa che Anne può aprire. Finché c’è il diario, il racconto dei giorni permette all’esistenza stessa di protrarsi, continuare, permette ad Anne di percorrere una distanza e spostarsi dal proprio passato.
Quando qualcuno arriva da fuori, con il vento sui vestiti e il freddo sulla faccia, vorrei ficcare la testa sotto le coperte per non pensare: ‘Quand’è che potremo respirare l’aria fresca anche noi’.
24 dicembre 1943
Il diario
Nata il 12 giugno 1929 a Francoforte sul Meno da Edith e Otto, Anne Frank ha una sorella di tre anni più grande, Margot. Di famiglia ebraica, nel 1933 si trasferisce con gli altri componenti ad Amsterdam dopo l’ascesa dei nazionalsocialisti in Germania e l’acuirsi delle violenze contro gli ebrei e i loro beni. Nella città olandese Otto Frank dirige la Opekta, fabbrica produttrice di aromi e pectina situata nel centro della città, e permette alla propria famiglia di vivere un tempo relativamente sereno fino all’arrivo dell’esercito nazista, che conquista i Paesi Bassi nell’arco di pochi giorni, nel maggio 1940. Nell’ambito del più ampio progetto di sterminio degli ebrei europei, i nazisti istituiscono anche ad Amsterdam le modalità di oppressione, spoliazione e deportazione già sperimentate in tante altre città del Reich. I Frank, vistasi rifiutare la possibilità di emigrare negli Stati Uniti e impossibilitati a fuggire altrove, trovano rifugio in alcune stanze sistemate nell’edificio retrostante alla Opekta, al 263 di Prinsengracht. Con loro, la famiglia Van Pels (Hermann, Auguste e Peter) e poco tempo dopo il signor Fritz Pfeffer. Circa tre settimane prima, per il suo tredicesimo compleanno, Anne riceve in dono un diario, la cui scrittura la accompagnerà fino al 1 agosto 1944. Il 4 agosto gli otto clandestini vengono scoperti e arrestati, a seguito di una delazione, imprigionati e successivamente tradotti nel lager di transito di Westerbork. Da lì verranno tutti deportati ad Auschwitz, dove i loro destini prenderanno strade diverse. Alla fine del conflitto solo Otto Frank sopravvivrà allo sterminio e farà ritorno ad Amsterdam.
Attimi
Due generi di documenti raccontano la vita di Anne Frank: il più importante è certamente costituito dagli scritti, ma non poco valore hanno le numerose fotografie. Scattate soprattutto dal padre, appassionato del mezzo e sufficientemente benestante per possederne uno e utilizzarlo con regolarità, coprono l’arco di vita di Anne già dalla prima infanzia, costellandolo di immagini, momenti familiari, quotidianità, con Margot e la madre, da sola, al banco di scuola, al pattinaggio dell’Apollohal, con le amiche nelle strade intorno a Merwedeplein, in terrazza, al parco. Attimi simbolici e istantanei, dove la faccia da secondogenita sbarazzina e spensierata di Anne campeggia su tutto, sulla compostezza della madre e sulla maturità della sorella, oppure interi set fotografici dove Anne aveva modo di divertirsi assumendo pose e atteggiamenti che oggi interpretiamo come estremamente attuali.
Nel nascondiglio le foto terminano. Foto e diario non si sovrappongono e là dove si spengono le immagini visibili, scompaiono il volto e il corpo di Anne, svaniscono in un nulla che chiede a noi lettori di figurarceli e renderli di nuovo concreti attraverso le parole. Il Diario lo permette e diviene la prosecuzione delle fotografie: descrive attimi simbolici e brevi, istantanee mentali, pensieri fugaci che balenano solo per un attimo nell’aria e vanno fissati in fretta, prima che siano dimenticati.
Diario e foto compongono un corpus unico nella storia della piccola dei Frank, un percorso che va dall’immaginario all’immaginazione e che Anne percepisce e riafferma nel suo stile e nelle rare scelte di libertà all’interno del nascondiglio: i muri della sua stanza da letto, condivisa con Fritz Pfeffer, mostravano un’esposizione di istantanee, perlopiù ritagliate da giornali e riviste di spettacolo. Volti di star del cinema americano e olandese, che difficilmente guardano fisse davanti a sé ma oltre: Deanna Durbin, Greta Garbo in Ninotchka (l’unico film in cui l’attrice svedese sorride), Ginger Rogers, Norma Shearer, opere d’arte, illustrazioni… Con forbici e colla, Anne ricrea un Olimpo fotografico dove i frammenti infinitesimali di vite altrui si fissano al muro di colei che racconta i frammenti della propria, con passione e frequenza assidua.