La città ardente, Dino Bonardi.

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    Un romanzo del 1933 che segue a filo parallelo alcuni "ritagli" della vita di Ludovico il Moro, Leonardo da Vinci e Beatrice d'Este. Li chiamo ritagli perché la narrazione procede un po' a scatti, recuperando e fermando alcuni punti salienti che sono - con ogni evidenza - inventati. Un romanzo che sto leggendo in questo preciso momento e che giudico molto piacevole, ben scritto, ma mancante: di una narrazione più fluida e distesa, di pathos. Per carità! Eccellente nelle descrizioni, nel tratteggiare i personaggi, nel lessico usato (come si addice ad un romanzo datato), però non riesce a coinvolger(mi). Forse quando giungerò all'ultima pagina muterò il mio definitivo giudizio, chissà! nel caso vi farò sapere.

    CITAZIONE
    Piuttosto che un romanzo storico secondo la consueta accezione, La Città ardente è un romanzo di trasfigurazione. Esso è essenzialmente il romanzo di Milano e la glorificazione dello spirito ardente e affettuoso che la sorresse nei tempi. Più che del documento, questa visione tien conto di testimonianze spirituali ed estetiche, di stati d'animo diffusi. Nella fattispecie, ricreando liberamente il dramma di Lodovico il Moro, di Leonardo, di Beatrice, ho piuttosto ascoltata la voce, occulta e segreta. degli affreschi, della tavole dipinte, dei marmi e delle architetture, che non quella espressa dai documenti. Tale concezione è spirituale in quanto suppone che tra passato e presente non vi sia scissione, ma continuità: spiriti, forme, uomini e costumi risorgono quando l'anima dell'artista li riviva e li riesprima secondo una sensibilità contemporanea. È quello che mi sono provato a fare. Tuttavia nulla ne «La Città ardente » è arbitrario. La visione di Lodovico il Moro, come uomo di poca fortuna, ma moralmente e politicamente ben superiore alla fama che taluni storici gli costruirono nei secoli passati, prima che in queste pagine di romanzo, fu raccolta da storici dotti e sereni. Il tempo, si può dire, ha lavorato sempre più a vantaggio di questo principe che avverò uno tra i fenomeni estetici più meravigliosi del suo tempo. Se qualche storico giunse ad assolverlo senz'altro dall'accusa di aver egli lentamente avvelenato il nipote, tutti ormai ammettono che nessuna prova esiste che egli si sia davvero macchiato di tale scelleratezza. In De La Sixeranne, nel suo saggio Beatrice d'Este et sa cour, si limita a definirlo a una delle figure più misteriose della Rinascita, giudizio che consente anche le più benigne interpretazioni. S. A. Nulli nel suo recente volume Lodovico il Moro ha saggiato, con acutezza ed obiettività, i limiti storici della figura di Lodovico. Sulla quale è molto da dire. Ciò che, ad ogni modo, nessuno può contestare, è che egli comprese il genio complesso di Leonardo, e che gli diè modo di rivelarsi in pieno, come è vero che i diciotto anni milanesi dell'artefice del « Cenacolo » furono, per unanime ammissione, i più fecondi e folti di opere eterne, della sua vita. A proposito di Leonardo, giova chiarire una questione che interessa la critica d'arte, nei confronti del ritratto che egli avrebbe, o non avrebbe, dipinto, di Beatrice d'Este. Su questo episodio si intreccia un capitolo de La città ardente. Devo ricordare che il famoso ritratto, che trovasi alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, per gran tempo attribuito a Leonardo, fu poi da alcune correnti critiche fatto risalire ad Ambrogio De Predis. La questione venne risollevata recentemente da Luca Beltrami, il quale, in una dottissima ed acuta dissertazione in Leonardo, ed i disfattisti suoi, ha rivendicato in pieno a Leonardo la paternità del celebre e squisito dipinto. A questa versione recente, restauratrice di una antica tradizione, si ricongiunge il pensiero animatore del capitolo del romanzo intitolato appunto Il ritratto di Beatrice,
    D. B.
     
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    pope
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    Questo mi interessa perché sembra un po' atipico.
     
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